| CAMPOFORMIDO. Puoi sfidarlo per tutto il tempo che vuoi. Tanto vince sempre lui, il banco. E anche se provi a fermarti, non ci riesci, perché l’ossessione è più forte di tutto. I giocatori d’azzardo si rendono conto di agire nel modo sbagliato, ma non riescono a smettere. La svolta, per la maggior parte di loro, arriva grazie all’aiuto di un parente. Un occhio esterno, che ha colto il disagio – meglio, il dolore – e ha contattato il Centro di Campoformido.
«È stata mia madre a farmi conoscere questa opportunità – racconta D., 59 anni, che frequenta i gruppi di terapia da 14 anni – ed è stata la mia salvezza». Le due ore settimanali al Centro, oggi, sono vissute con un atteggiamento molto diverso. «Oggi sto bene, ma continuo a dare il mio contributo: parlo della mia esperienza e ascolto gli altri. La mia storia può essere d’esempio».
D. si è avvicinato al gioco da ragazzo, verso i 15 anni, con le schedine. Inizialmente non si trattava di un problema. «Le cose sono peggiorate progressivamente. Buttavo via tantissimi soldi, tra slot e casinò, e non ero più in grado di gestire la mia vita». Un malessere interiore che cresceva in maniera esponenziale («Ho pensato al suicidio»), il gioco che prendeva il sopravvento. Era arrivato ad accumulare 100 mila euro di debiti, tra tasse e affitti non pagati. Disperato a tal punto da trattenere i soldi dei suoi clienti. «Poi mi sono autodenunciato, ma ero fuori controllo».
L’assurdo è che «non giocavo per vincere, ma in quelle ore di silenzio, davanti alle macchinette, non pensavo ai miei problemi – confessa – . La sera prima di incontrare il dottor De Luca mi sono detto “questa è l’ultima sera che gioco” e così è stato. Non ho avuto ricadute». Davanti all’opportunità di farsi aiutare, D., non ha detto di no. «Mi ci sono buttato a capofitto. Avevo bisogno di parlare con persone che potevano capirmi, di confessare il mio disagio. Ed è andata bene».
Maurizio Cechet, da quattro anni vicepresidente di Agita - l'Associazione degli ex giocatori d’azzardo e delle loro famiglie che promuove il cambiamento dello stile di vita delle persone dipendenti da gioco d'azzardo e dei loro parenti e favorisce il reinserimento nell’ambito lavorativo e nel tessuto sociale – , ha iniziato il suo percorso con i gruppi di terapia 13 anni fa.
«Dal 1993 al 2003 ho accumulato oltre un miliardo di lire di debiti, sono riuscito a passare 26 ore in un casinò – racconta – . Il gioco d’azzardo ha a che fare con un dolore insopportabile che hai dentro. È la medicina, la malattia è un’altra…».
Nella testa di Maurizio, di Fogliano di Redipuglia, qualcosa è cambiato «dopo una notte in casinò, quando per la prima e unica volta mi sono reso conto di non farcela più da solo. Mi serviva una terapia per trovare l’equilibrio che mi mancava».
Il messaggio che vuol far passare è chiaro: c’è una via d’uscita per tutti, ma sono i familiari del giocatore che devono chiedere aiuto, perché il diretto interessato «non ha la volontà».
Secondo il vicepresidente dell’associazione nata nel 2010, la prevenzione «non funziona. Ciò che si dice oggi è lo stesso che si diceva dieci anni fa, solo che la situazione è peggiorata: allora le offerte di gioco erano tre e ora sono venti. Bisogna chiedersi: chi è che manipola l’azzardo? Chi è che lo propone?».
L’esperienza di T., 60 anni e residente a Udine, è un po’ anomala. «Sono stato io a rivolgermi al dottore – spiega – . È successo dopo che in una giornata ho speso 1.200 euro, tutto il mio stipendio».
Il gioco, prima che diventasse azzardo, era parte della sua vita, fin da bambino. Giocava a carte con il nonno nell’osteria del paese, con la zia a casa, un’abitudine familiare. «Con l’arrivo delle macchinette, ma anche con le serate al casinò, sono andato vicino al disastro economico – aggiunge – . Non ci sono arrivato, per fortuna. Avevo adottato delle contromisure: non tenevo un libretto d’assegni e avevo il conto cointestato».
Non c'era un problema familiare o una delusione amorosa dietro l’azzardo: c’era solo la passione per il gioco, poi diventata ossessione. Durante il percorso non cedere è stato difficile. «Ci sono tanti stimoli, ma devi essere vigile e non mollare – chiude – . Ogni settimana in cuor mio mi dicevo “anche questa è andata senza giocare”: la forza della terapia sta nel gruppo ed è grazie alla comunicazione con gli altri che sono riuscito ad uscirne». (m.t.) |